Roma – La rivoluzione siriana, quella breve stagione nel 2011 in cui la protesta contro il regime di Bashar al Assad fu pacifica e spontanea, è ormai quasi dimenticata, e oggi per i media la Siria è sinonimo di guerra civile, Isis, e Russia. Ora il Collettivo Idrisi, un gruppo di studio sulle tematiche legate all’Islam e al mondo arabo, ha pubblicato “Prima che parli il fucile. Omar Aziz e la rivoluzione siriana”, che racconta quella vicenda politica e civile attraverso la storia e l’opera di Aziz. Un siriano laico – prima di morire in un carcere governativo in circostanze mai del tutto chiarite – scrisse un manuale strategico non violento sull’auto-organizzazione della rivolta contro il regime.
Ne abbiamo parlato con Lorenzo Declich, studioso di Islam che assieme a Claudia Avolio, Andrea Glioti, Caterina Pinto e Lorenzo Trombetta, fa parte del Collettivo Idrisi.
“Omar Aziz era un signore di mezza età, un siriano di Damasco, di buona cultura, potremmo definirlo un borghese qualunque, che come tanti altri era andato a lavorarefuori dalla Siria, e non 2001 si trova a dover fare una scelta: tornare in Siria per dare mano a chi agitava le proteste contro Bashar al-Assad oppure farsi i fatti suoi e restare in Arabia Saudita a lavorare. Lui decide di tornare a Damasco, si incontra con gli attivisti damasceni e fa un gran numero di esperienze di protesta, fra cui i Consigli locali, purtroppo poi viene catturato dai servizi segreti di Bashar al-Assad e dopo pochi mesi muore in un ospedale militare dopo essere stato in carcere”.
Aziz scrisse un breve testo, “La creazione dei Consigli locali in Siria: suggerimenti pratici in vista del proseguimento della rivoluzione”, in cui teorizzò il ruolo di queste strutture di base. Ma che cosa sono i Consigli locali?
“Lui fu l’unico che scrisse un testo su cosa fossero i Consigli, e non partendo da chissà quali teorie, ma misurandosi ogni giorno con le esigenze delle proteste, con la repressione. Lo ripubblichiamo nel libro, è un testo molto breve ma molto efficace che ci racconta cosa fossero. Un qualcosa che andava oltre la protesta o l’organizzazione della copertura mediatica della protesta, e che cercava invece di organizzare le comunità, assicurando l’istruzione ai bambini in aree colpite dalla repressione, pulire le strade, assicurare i servizi idrici. Un’organizzazione popolare dal basso che riuscisse a tenere insieme la popolazione che stava protestando e che subiva la repressione”.
Cosa resta oggi di quell’esperienza?
“Dalla metà del 2012 scoppia una vera e propria guerra, quindi esperienze di questo genere che sono fondamentalmente non violente subiscono una battuta d’arresto molto forte. Questi Consigli locali, che ancora in alcune aree resistono, o sono stati spazzati via dalla guerra oppure sono entrati nel gioco delle parti per cui sono ostaggio per esempio di gruppi jihadisti che ne condizionano l’esistenza. Si sono ridotti in numero, prima si contavano a centinaia in tutta la Siria, ora si contano a decine, in qualche caso continuano ad avere la funzione che avevano originariamente”.
Quando il regime comincia una repressione sempre più violenta, Aziz è messo di fronte a una scelta difficile sulla natura pacifica della protesta, per lui un fattore cruciale.
“Questo è uno dei motivi per cui Lorenzo Trombetta ha intervistato sua moglie – spiega Declich – volevamo capire queste cose. A un certo punto, quando Aziz vede da casa sua gli aeroplani bombardare le aree dove lui ogni giorno va a a cercare di organizzare la protesta, e si trova in una condizione di impotenza, invoca una difesa. Lui non violento che fino ad allora ha cercato di organizzare un nuovo futuro dando una mentalità nuova a chi protestava, si ritrova anch’egli a invocare un aiuto per difendere la popolazione da questi attacchi indiscriminati”.
Ma perché raccontare Omar Aziz oggi, in Europa?
“Noi abbiamo sempre visto un buco nel racconto della Siria di questi anni, che era proprio quello della protesta, della rivoluzione, del tentativo di organizzare qualcosa di democratico che andasse oltre la dittatura di Bashar al-Assad. Abbiamo scelto Omar Aziz perché attraverso la sua figura si testimonia di tutta una generazione, molto più giovane di lui, che ha cercato di fare questa cosa in anni difficili e che è stata dimenticata. Nel futuro, ci sono tanti attivisti, fuggiti dalla Siria o che ancora sono lì, che forse sono l’unica speranza per una Siria futura”.